Il valore dell'ordinario: setting di relazioni con possibili effetti terapeutici

Introduzione

Lavorare stanca, stanca meno, però, se siamo contenti del nostro lavoro e se le relazioni interpersonali tra operatori sono positive.
Ma, nonostante tutto, spesso ci sono momenti stressanti.
Nel nostro lavoro alternano attività fondamentali (l'ordinario) a momenti e a proposte eccezionali (lo straordinario).
Perché l'ordinario (accoglienza, programma operativo abituali, relazioni quotidiane operatori/giovani, ecc.) sia meno stressante è importante renderci conto che svolgiamo un lavoro significativo: non solo assistenziale, ma socio-educativo; a volte perfino con effetti terapeutici. E questo vuole essere l'obiettivo fondamentale della relazione: rivalutare, cioè, il nostro impegno ordinario. Sapere di fare una cosa utile, può far superare anche la pesantezza di alcuni momenti purtroppo estremamente "pesanti".
Oltre all'ordinario c'è lo "straordinario": un primo gruppo di attività straordinarie è quello costituito da scelte creative, socializzanti, ludiche: esperienze residenziali, rappresentazioni teatrali aperte al pubblico, mostre di pittura, film e fotoromanzi, giornalini, gite, feste, mercatini, "giochi senza barriere", manifestazioni sportive, ecc. Si ha un rapporto particolare col territorio, si convive anche con i genitori dei giovani e con persone estranee all'esperienza comunitaria. Queste attività straordinarie sono certamente stimolanti, rompono la routine, ci danno la possibilità di vedere i nostri giovani in ambienti e situazioni diverse, danno spirito all'ordinario: sono il famoso cacio sui maccheroni.
Se sono troppo frequenti, però, possono diventare anche causa di vero stress, possono stravolgere l'ordinario, diminuire l'attenzione verso i giovani inseriti, possono occupare troppo tempo per l'organizzazione, ecc.
Ma c'è anche un altro tipo di straordinario spesso più pesante e, certamente, meno eccitante e creativo.
La preoccupazione per l'ambiente (pulizia, manutenzione, funzionamento dei servizi, ristrutturazioni...), per l'organizzazione dei trasporti e della mensa; per l'ergoterapia (ricerca del lavoro, bolle di consegna, contabilità,...), per le relazioni con Enti gestionali, USSL, Comuni, Cooperative, Comunità Montana (relazioni, schede, riunioni,...) per rapporti, a volte complessi, con i genitori, per la gestione dei tirocinanti e dei volontari, ecc.
Questo straordinario ci fa sentire da una parte più responsabili, ma dall'altra, anche dipendenti, condizionati, controllati, superimpegnati, via con la testa.

Valore dell'"ordinario": approfondimento teorico e metodologico

Tutti i giovani portatori di handicap che, vengono accolti nelle nostre comunità sono stati precedentemente seguiti in vari Centri riabilitativi: da neuropsichiatri, psicologi, fisiatri, fisiocinesiterapisti, ortofonisti/logopedisti, psicomotricisti ecc.
A detta dei genitori (e sulla base delle nostre osservazioni iniziali) i risultati a volte sono stati significativi, a volte "l'impegno terapeutico", anche specialistico e massivo, non ha portato a grandi risultati.
Noi entriamo nella loro storia con rispetto del passato (attenti a quanto fanno o hanno fatto altri, senza metterci in competizione, senza rompere equilibri e rapporti), senza presunzioni o promesse illudenti, ma anche con speranza di essere utili.
Offriamo un intervento che va oltre la terapia diretta e specifica individuale: di animazione, di creatività, di musica e sport, proposte varie su misura si adulti (anche se adulti con difficoltà) in cui però la sostanza è sempre la relazione, la relazione positiva.
Abbiamo la consapevolezza che questa modalità di intervento porta spesso a risultati insperati, produce anche veri effetti terapeutici, soprattutto con gli insufficienti mentali e gli psicotici.
Cerco di darne una spiegazione partendo dall'analisi degli elementi basilari della psicoterapia.

La terapia diretta esige:
  • Innanzitutto, da parte del paziente, forte motivazione (cioè coscienza del proprio disagio con richiesta esplicita di aiuto). Essa può essere surrogata, o in toto o in parte, dalla famiglia o da chi ne ha il carico, per i bambini molto piccoli e per gli handicappati gravi, che, del disagio, non si rendono conto, almeno del tutto ed esplicitamente, comunicandolo semmai solo a livello non verbale
  • Corretta diagnosi dinamica che si fonda sull'anamnesi e sull'osservazione attenta del soggetto: tipologia dell'handicap; sintomi e cause; età mentale e cronologica; capacità del paziente, preferenze, blocchi e paure; modalità della sua comunicazione-relazione. Comporta, anche, un'attenta considerazione del nucleo famigliare, della struttura e della comunità sociale dove la persona è inserita
  • Chiarezza di contratto che stabilisca realisticamente obiettivi e limiti dell'intervento; modalità, spazi e strutture; durata e numero delle sedute settimanali, previsione di massima circa la durata della terapia; verifiche e restituzioni; costi.
  • Ma, soprattutto, ogni tipo di psicoterapia deve prevedere la capacità del terapeuta di "gestire" il rapporto terapeutico. L'essenza dell'intervento sta nel vivere in modo intenso, ma corretto, il rapporto col paziente: sta nella capacità di non entrare in angoscia (di impotenza, incompetenza, solitudine, del futuro); nel coinvolgimento di profonda "alleanza" empatica, pur mantenendo sempre il proprio ruolo; nell'esprimersi, in questa esperienza privilegiata, con una comunicazione non verbale "involontaria" particolarmente positiva e di"accettare" la comunicazione verbale e non verbale del paziente anche se, a volte, diventa evasiva, confusa, dissociata, implorante, depressa, oppositiva, arrogante, aggressiva, ecc. Quando non si sa reggere la risposta"negativa" si sviluppa una tendenza all'espulsività! Gestione del rapporto terapeutico che richiede il sostegno di verifiche di équipe e supervisioni.
  • Infine: ogni terapia prevede una corretta dimissione, né troppo anticipata, né troppo procrastinata. Non si può pensare ad una terapia che non finisce mai. Se diventa troppo lunga assume, al massimo, il significato di contenimento o mantenimento dei risultati acquisiti. Ma, a volte, rivela una vera incapacità di distacco psicologico, indecisione, senso di indispensabilità, dipendenza strutturata, e perfino interesse economico. Questi punti metodologici fondamentali non sono solo aspetti tecnici, studiati a tavolino, ma sono il precipitato dell'esperienza continua di chi fa lo psicoterapeuta. Ma queste stesse modalità ed esigenze di correttezza anche se sfumate e con diversa accentuazione ed importanza, sono, anche senza volerlo, la base di ogni rapporto, soprattutto di carattere educativo e comunitario.
Vediamone ora l'applicazione all'esperienza dell'"ordinaria relazione" nei nostri Centri.
Nell'analisi realistica delle varie esperienze fatte, come ho già notato all'inizio, si ottengono, a volte, notevoli effetti terapeutici anche senza interventi portati avanti secondo la metodologia di intervento diretto ed individuale.
Il vivere in un gruppo con rapporti empatici, la circolarità della comunicazione, l'ambiente favorevole, la stimolazione da parte degli operatori e la capacità di imitazione positiva in situazione fondamentalmente apedagogica dei soggetti portatori di handicap, il non procedere per progetti rigidi (che spesso danno la sensazione di imposizione più o meno didattica, ripetitiva); l'impostazione per cui gli operatori non si sentono insegnanti-istruttori-terapeuti, ma "persone che vivono con", "tessitori di relazioni positive", nella funzione di "animatori" di esperienze vitali (animatori che, dopo aver colto e valutato esigenze e capacità della persona, coinvolgono tutti i singoli in progetti di gruppo, ludici e piacevoli, e perciò particolarmente ricchi e motivanti): tutto questo, spesso, dà anche risultati insperati.
L'esperienza comunitaria e di animazione non porta a questi risultati sempre e automaticamente: solo là dove si rispetta l'"essenza" dell'intervento terapeutico.
I punti fondamentali sono ancora gli stessi, anche se mutano le situazioni e le modalità di intervento.
  • La motivazione. Qui è più complessa: la presa di coscienza del disagio e la richiesta conseguente di aiuto, è di solito espressa dai genitori o dai famigliari. Il giovane invece fonda le sue motivazioni sul piacere: sul piacere di venire al Centro, per le relazioni positive, per le persone che sente come gratificanti,ecc.
  • L'osservazione sistematica del soggetto, soprattutto per ciò che ha di positivo e per scoprire ciò che gli piace, con l'attivazione conseguente della sua parte sana (attenzione al singolo nelle proposte di gruppo)
  • La chiarezza delle finalità e la gestione positiva del rapporto di alleanza che fa evolvere l'approccio socio-educativo nell'approccio psicologico-relazionale. Anche senza volerlo, dicevamo, la compresenza e la condivisione dell'esperienza comunitaria (per ben 7/8 ore giornaliere) presenta situazioni in cui si realizzano continuamente rapporti intensi che si possono accostare a quelli dell'intervento terapeutico diretto. Ci sono però alcune differenze fondamentali:
  • Il terapista ha l'obbligo contrattuale di raggiungere degli obiettivi specifici programmati. Per noi c'è solo l'impegno della intensificazione della motivazione e della ricerca del benessere psicologico globale del giovane in carico. Se vengono risultati più specifici (apprendimenti, miglioramenti comportamentali, ecc.) ne siamo certo ben contenti; ma se non si verificano, almeno in tempi stretti, non ne siamo angosciati, perché non è soprattutto questo il fine specifico del nostro lavoro. Proprio per questa minor pressione interna ed esterna possiamo essere facilitati nel mantenere una relazione più positiva
  • Il rapporto non è pensato come relazione continua tra operatore specifico/ handicappato specifico. Come più volte detto, sono contrario al rapporto 1/1 costante con lo stesso operatore che crea un rapporto pseudo-terapeutico ingestibile e dipendenza strutturata. Il rapporto può essere inizialmente anche duale, ma con alternanza degli operatori. Anche in quei casi in cui è necessario, per un primo periodo, un riferimento unico, si deve passare, il più presto possibile, ad un progressivo aumento delle persone di riferimento: fino a giungere ad interventi di tutti (o quasi) gli operatori: che non è solo coadiuvante dell'intervento, ma "sostanza" dell'intervento.
  • L'esperienza comunitaria e di animazione, evidentemente, non prevede per sé dimissioni perché ha come fine proprio "il piacere condiviso" di stare e operare insieme e il conseguente benessere psicologico della persona. In conclusione: ritengo che la forte motivazione, la capacità dell'osservazione sistematica, la chiarezza delle finalità e la gestione positiva del rapporto siano la causa e la spiegazione sufficiente dei risultati che, con meraviglia, spesso osserviamo. Credo sia necessario approfondire ulteriormente il tema affrontato e verificarne la veridicità nell'analisi del nostro quotidiano. E soprattutto verificare se il benessere in"situazione" fondamentalmente terapeutica, dia effetti terapeutici anche in famiglia, nell'inserimento sociale e nel tempo. Solo in questo caso si può parlare di"vera terapia".