Comunità socio-educativa: impianto teorico • Impostazione - Finalità - Valutazioni
Le persone inserite nelle varie strutture di servizio per l'handicap, diurne o residenziali sono giovani e adulti che, pur nella difficoltà classificatoria nei confronti di persone così diverse, sono portatori di pluri-handicaps: oltre a problemi di natura fisico/organica, presentano difficoltà dal punto di vista intellettivo e psichico.
Il loro inserimento è (per quasi tutti) fondamentalmente definitivo: chi vi si trova bene, può restarci per tutta la vita. Proprio quest'aspetto di definitività (che può sembrare sconcertante, ma è reale) incide profondamente su tutta l'impostazione di questi servizi.
Non possono essere considerati come ulteriore scuola o centri di addestramento (non sono momenti di passaggio, "preparazione a..."), inseguimento forzato di socializzazioni utopiche, luoghi di terapia infinita. Certo non devono essere neppure strutture di pura assistenza, con pericolo di cronicìzzazione.
Ritengo debbano essere impostati come: comunità, comunità di adulti, di lavoro, il più possibile inserita nella comunità territoriale.
  1. Comunità: perché è esperienza di gruppo solidale, con reciprocità e varietà di rapporti, il più possibile paritari, tra operatori e giovani inseriti, aperta all'apporto integrativo di volontari e di obiettori. È comunità perché si sfumano interventi di carattere educativo/terapeutico "diretto", accentuando invece l'importanza di un approccio psicopedagogico in cui prevale la relazione, il non verbale, il contesto, il far leva su motivazioni profonde (autorealizzazione, identità di adulto).
    L'intervento socio-educativo è soprattutto a livello globale: si valorizza la "normalità" dei nostri giovani, più che evidenziarne l'anormalità, il "positivo" più che il "negativo". Ci si basa sulla gratificazione e sulla crescita "naturale" in ambiente in continua stimolazione.
    Il vivere in comunità ricca di valori (e metodologicamente corretta) può produrre notevoli effetti terapeutici (terapia indiretta).
    La vita di gruppo con rapporti empatici, la circolarità della comunicazione, l'ambiente favorevole; la stimolazione da parte degli operatori e la capacità d'imitazione positiva in situazione fondamentalmente apedagogica dei giovani handicappati; il non procedere per progetti rigidi; l'impostazione fortemente voluta, per cui gli operatori non si sentono esecutori di progetti stesi a tavolino da altri, né insegnanti-istruttori-terapeuti, ma "persone che vivono con", "tessitori di relazioni positive", il loro sentirsi soprattutto "animatori", che dopo aver colto esigenze e capacità dei singoli componenti del gruppo, coinvolgono tutti in progetti ludici e gratificanti: tutto questo, ripeto, dà spesso dei risultati psicologici inaspettati.
    Si rivaluta l'esperienza comunitaria nella sua notevole valenza terapeutica nel settore dei portatori di handicap, anche gravi. Naturalmente l'esperienza comunitaria è così positiva solo là dove si rispetta "l'essenza" dell'intervento terapeutico. Parlo di quel "vivere con" che esalta la motivazione partecipativa (non si tratta quasi mai, in questa situazione, di presa di coscienza del proprio disagio e di richiesta conseguente di aiuto, ma di motivazione basata sul piacere!), l'osservazione sistematica del soggetto e l'attivazione conseguente della sua parte sana in proposta globale, che sa gestire il rapporto di alleanza. Senza illusioni (e perciò anche senza troppe angosce!), senza promesse contrattate, ma intrisa di fiduciosa speranza, nella modestia di chi si mette in discussione (capacità di autocritica, lavoro di équipe, super-visione) come abitudine di vita, ancor prima che come modalità di lavoro.
    L'esperienza comunitaria non prevede per sé espressamente dimissioni, perché non ha come fine un determinato miglioramento specifico, ma ha come finalità il benessere psicologico della persona integrata nel gruppo: e questa auspicabile qualità della vita si spera possa durare per lungo tempo.
    Una simile impostazione di "comunità" è progetto che sembra semplice, ma è invece fin troppo ambizioso. Si richiede negli educatori solida formazione personale e professionale, frutto di studio, esperienza, capacità di confronto, e di continua riflessione su di sé (perché si mette in gioco la propria persona) e sul proprio lavoro. Il pericolo di decadimento è dietro l'angolo: se cala "la voglia e il piacere di vivere con l'handicappato", si rischia di ritornare al puro accudimento assistenziale.
    La metodologia è quella del gruppo di lavoro, dell'intervento come "gruppo sul gruppo". Tranne in casi eccezionali, nessun operatore ha in carico un giovane handicappato. Tutti sono "per" e "con" tutti, secondo un'interazione e integrazione modulare. È una metodologia che dà garanzia di non indurre dipendenza, indispensabilità di presenza singola, parzialità e disparità di interventi, rapporti pseudo-terapeutici diretti spesso ingestibili. Nella comunità si tengono presenti anche le specifiche capacità personali, le propensioni, i ritmi di ciascuno (si possono, perciò programmare percorsi individualizzati, ci si può suddividere in piccoli gruppi per particolari attività, ecc.): ma quello che conta è che tutto si armonizzi nell'insieme, sia esperienza di vita in comune, articolata, intenzionalmente integrata.

  2. Comunità di adulti: perché oltre alla realistica valutazione dell'età mentale dei soggetti, si tiene in alta considerazione anche l'età cronologica, che incide notevolmente sullo sviluppo emotivo-affettivo, sui desideri, sulle spinte imitative.
    Si lavora con persone che sono uscite dall'età evolutiva: sono nell'età della "propria" realizzazione possibile dell'attualizzazione e della generalizzazione delle potenzialità personali espresse.
    Ogni proposta, pur essendo semplice e concreta, esclude assolutamente contenuti infantili.
    Gli educatori (come pure gli obiettori di coscienza e i volontari) si pongono come adulti che vivono un'esperienza di vita con altri adulti: non tanto quanto educatori-istruttori diretti.
    La differenza funzionale tra "educatore-istruttore" e "educatore-compagno d'esperienza" (anche se più capace e con ruolo diverso) è che il primo legittima la sua presenza proprio in funzione dell'incapacità altrui, e in questo caso dell'handicap; il compagno di lavoro legittima la sua presenza su "da farsi": anche se insegna non induce diretta dipendenza, e ciò permette un rapporto basato sulla naturale imitazione del positivo.
    Nella comunicazione, l'educatore si adegua spesso alle modalità dell'handicappato; il compagno di lavoro tende invece ad attivare modalità di comunicazione normale.
    In conclusione si vuole evitare che il rapporto con il portatore di handicap nella Comunità Socio Educativa sia "collusivo" con la modalità dei rapporti che questi ha troppo spesso in famiglia, nella comunità e nel tempo libero (basati sull'idea dell'handicappato come "eterno bambino"). Anzi si cerca in ogni modo di far prevalere anche all'esterno della struttura la vera accettazione della persona come cresciuta e adulta, sia con incontri con i famigliari che con i gruppi di volontariato, creando occasioni di maturazione del territorio.

  3. Proprio perché è comunità di adulti, diventa anche comunità di lavoro. La proposta fondamentale è quella del "fare" e del "fare insieme", della relazione mediata da oggetti da operazioni, dall'ergoterapia.
    Si dà particolare importanza alla funzione formativa e terapeutica del fare, del produrre, del "lavoro". Ciò deriva dal fatto, che il portatore di handicap, trova nel lavoro (se adeguato alle sue capacità) quella possibilità d'autorealizzazione che difficilmente trova in altri campi dell'attività umana. Ecco perché, al di là del problema di gestione generale del servizio, è utile la collaborazione con una Cooperativa sociale, che può realizzare un rapporto anche con ditte esterne per svolgere "lavoro" minimo, ma significativo, inserito nel contesto produttivo normale.
    Il lavoro ha una funzione insostituibile di maturazione: quello di trasformare, sublimare, finalizzare costruttivamente le energie pulsionali.
    È fondamentale il riferimento esemplare che i giovani inseriti hanno con adulti che lavorano con loro, facendo quello che vedono svolgere dagli adulti. È fondamentale anche il rapporto con chi esercita l'autorità, pur come servizio, legittimando atteggiamenti di esigenza e di fermezza, in uno spirito di attenzione e di comprensione. Incontrandosi con la realtà lavorativa (organizzata e protetta) anche l'handicappato apprende il riconoscimento delle proprie capacità, l'oggettivazione del comportamento adeguato, la dilazione della gratificazione, la conquista della soddisfazione, l'assunzione di responsabilità, il rispetto dei ruoli. È un'esperienza che si oppone al bisogno di sentirsi accuditi, protetti, mantenuti piccoli: si può parlare veramente di ergoterapia.
    Per i più, per cui è difficile attivare schemi comportamentali sufficientemente rassicuranti e "competenze" minime necessarie per l'integrazione (anche supportata) in diversi ambienti di lavoro, gli obiettivi diventano il mantenimento delle capacità acquisite o almeno la prevenzione da gravi involuzioni e dall'invecchiamento precoce.
    L'ergoterapia ha una funzione di contenimento e di rivalutazione dell'individuo anche attraverso il semplice assemblaggio, "il ripetitivo": in modo tale che, dopo il ripetitivo rassicurante, si possa fare una proposta accettabile del nuovo.
    L'attività lavorativa facilita l'intervento degli stessi operatori e volontari che, a differenza di quanto avviene in altre strutture socio-assistenziali, non entrano nelle consuete angosce di incompetenza e di continua ossessiva ricerca del nuovo da proporre; imparano spesso dai giovani cosa devono fare.
    Le numerose "attività integrative" (attività artigianali, ludico-sportive, espressive, di drammatizzazione, teatro, cinematografia, musicoterapia, piscina, ippoterapia, esperienze di relax, mantenimento d'abilità didattiche acquisite, computer, ortofloricultura, esperienze sul territorio, feste interne ed esterne alla comunità, esperienze comunitarie residenziali, ecc.) che cadenzano la giornata, la settimana, il mese e l'anno sociale, completano e vivacizzano la vita nella Comunità.

  4. Comunità inserita nella comunità territoriale. Si vuole qui affermare l'essere "operatore" della comunità territoriale: essa può essere fattore di emarginazione o di accettazione- integrazione, in quanto la gravità dello svantaggio è da considerarsi, non solo in riferimento a un concetto astratto di norma, ma anche in riferimento alle aspettative ed ai livelli di maturazione della coscienza sociale-culturale-politica della popolazione del proprio territorio.
    La maturazione della comunità è una proposta di "profonda operazione culturale": la meta è il superamento delle barriere, quelle psicologiche, più gravi ancora di quelle architettoniche. E questo non solo attraverso dibattiti più o meno teorici, ma offrendo possibilità di "convivenza" con l'handicap, in esperienza di condivisione reale e continuativa (vedi esperienze di volontariato).
    Ci si preoccupa e ci s'impegna affinché il Centro sia sentito dalla popolazione non come un'organizzazione assistenziale anonima, ma come espressione della propria solidarietà, come realizzazione delle istanze più profonde del proprio impegno per i più deboli.
    La comunità territoriale viene coinvolta grazie a svariate proposte (camminate, feste, carnevale, "Giochi senza barriere", "Festival del cinema", "Note senza Barriere" ecc.) e, soprattutto, attraverso il trait-d'union dei volontari, figure determinanti per il funzionamento del Centro.
    I volontari trovano la loro funzione nella collaborazione alle diverse attività, garantendo un impegno (organizzato e corretto) di presenza costante e continuativa. Si devono sentire come "veri colleghi di lavoro". La loro presenza è utile per "sghettizzare" la Comunità, per fornire modelli d'imitazione positiva, per collaborare a creare un clima sereno e stimolante, per offrire possibilità di "scambio-ricarica" al personale, per essere "ambasciatori" di una nuova visione dell' handicappato nella comunità.
    Molto utili sono i anche i giovani obiettori che svolgono "servizio civile" in alternativa a quello militare.